Gli studi che si occupano dell’approccio di genere al linguaggio, e del linguaggio normativo in particolare, non hanno solo il fascino di questioni meramente semantiche, linguistiche, ma sono portatori di elementi che hanno a che fare con la discriminazione di genere.
Essi ci impegnano ad interrogarci sugli stereotipi e sui pregiudizi che, nel tempo, non sono rimasti confinati unicamente nell’ambito meramente grammaticale, solamente speculativo, in una sorta di distante empireo filosofico, bensì sono stati un vincolo effettivo, reale concreto, e lo sono tutt’oggi, al raggiungimento delle pari opportunità tra uomo e donna, o in una prospettiva più completa e inclusiva, dovremmo dire, e così diciamo, tra i generi.
E’ già dal 1930 che Bruno Migliorini (linguista, filologo, presidente dell’Accademia della Crusca) –STORIA DELLA LINGUA ITALIANA-
nei primi anni Trenta, riconosce che: “La sempre maggior partecipazione delle donne alla vita pubblica ha portato a numerose coniazioni di nomi di professione femminili, e parecchie voci come autrice, direttrice, dottoressa, professoressa, patronessa, senatrice sono diventate normali”
Le parole infatti non vivono di vita autonoma, confinate nei libri di grammatica e avulse dal contesto culturale che costituiscono a plasmare, ma sono il riflesso e al contempo il portato rilevante della nostra realtà.
Cio’ che dico “è”; ciò che trova parola che lo sorregge “esiste” nel mondo reale.
Come “diciamo” le parole, il contesto in cui le utilizziamo, come manipoliamo le regole che le pongono l’una in relazione alle altre, formano la nostra immagine del mondo.
Non so se vi ricordate ma io, come credo tutti noi chiedevo da piccola: come si forma il femminile di un nome?
“Dal maschile”, mi veniva correttamente detto e sin dalle elementari imparavo quelle regole grammaticali che dal maschile facevano discendere il femminile.
Il femminile era, ed è grammaticalmente, una desinenza derivata, non dal neutro ma dal maschile.
Quando quella formazione scolastica incontrava il mondo, quello reale quello a cui si doveva dar parola, i, e credo tutti noi, davamo vita alle opinioni, alle nostre e a quelle degli altri.
Le parole che nel tempo avevamo appreso e metabolizzato, dentro di noi, diventavano dunque fondamentali quando raccontavamo agli altri quello che ci era accaduto.
Specularmente, dopo oramai molti anni, le parole che si sono stratificate in ognuno di noi diventano indispensabili per raccontare quello che accade nella società, dunque tra noi e gli altri.
Banalmente sono le parole che rappresentano la nostra realtà, e dunque sono le parole di cui siamo confidenti che creano, corroborano favoriscono o al contrario demoliscono stereotipi e pregiudizi.
Inoltre se usate malamente generano confusione.
Ecco partendo da queste banali considerazioni, vorrei raccontarvi una storia in cui c’è l’esempio concreto di come le parole utilizzate per rappresentare una parte di mondo, incasellandola in determinate caratteristiche considerate ONTOLOGICHE, abbiano avuto un effetto concreto su quella parità e su quell’accesso che proprio i pregiudizi e stereotipi veicolati con e nelle parole, ne hanno costituito la gabbia. Da qui l’importanza di usare le parole giuste.
L’ingresso delle donne in magistratura fu previsto dalla legge n. 66 del 1963, approvata a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 33 del 1960.
Singolare, se ci pensiamo, perché l’art. 3 e l’art. 51 della Costituzione erano già largamente vigenti (dal 1 gennaio 1948) e dunque per quali motivi una legge ad hoc con soli due articoli che recitavano così – cita norma 63/66.
Orsù, non deve stupire più di tanto perché se si vanno a leggere le norme di diritto del lavoro nel privato dapprima e nel pubblico impiego dappoi, non si può non notare come l’evoluzione della stessa normativa declini la donna ad un ruolo, ad inizio secolo, di natura esclusiva/protettiva, per poi (in particolare per il ventennio fascista) evolvere nell’equiparazione delle puerpere e dei fanciulli.
Sino al periodo post bellico cui convivono norme di protezione del lavoro e principi di parità salariale che trovano un effetto anche concreto con la legge 903 del 77.
(Detto questo oggi il gender gap salariale ( mi riferisco alla nostra professione e io ho dati del 20177 dell’ADEPP (Associazione degli Enti di Previdenza Privati) che ogni anno raccoglie i dati sui redditi dei professionisti italiani, un uomo fra i 30 e i 40 anni guadagna 20 mila euro lordi, una donna 17 mila. Tra i 40 e i 50 anni si passa dai 25 mila euro lordi per le donne ai 40 mila per gli uomini. Ma questa è materia di altro convegno...)
Insomma se nel ‘45 si era risolto con decreto del Consiglio dei Ministri il problema dei diritti politici, si poneva negli anni ‘60 in maniera forte il problema del lavoro nel settore pubblico ed in particolare in quelle posizioni che costituiscono uno dei poteri chiave dello Stato.
Se si vanno a leggere le meravigliose discussioni delle Commissioni per la Costituente, che si interrogavano sull’art. 20 del progetto Calamandrei, sono messe nere su bianco le motivazioni alla base delle fortissime opposizioni all’ingresso delle donne in magistratura.
Uno dei refrain ricorrenti era l’infirmitas sexus, connessa anche alla ritenuta maggiore difficoltà ad una certa capacità di giudizio e di equilibrio.
Cappi (deputato DC e giurista sopraffino): riteneva invece che le donne avrebbero dovuto poter essere inserite e utilizzate in determinati giudizi, senza che avessero la possibilità di accedere alla carriera giudiziaria e diventare magistrati
Villabruna ( partito Liberali Italiano): altro padre costituente recitava testualmente: «non credo che vi sia alcuna Carta costituzionale che possa compiere un tale miracolo, se pure si trattasse di un miracolo: che riesca a portare sullo stesso piano la mentalità degli uomini e quella delle donne. Le donne – e non credo con questo di recare offesa al sesso gentile – [...] hanno un modo di sentire, un modo di vedere, un modo di ragionare, un modo di giudicare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno in cui avrete affidato l’amministrazione della giustizia ad un corpo giudiziario misto, che cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto».
Leone (sesto Presidente della Repubblica DC), lo stesso Leone, in senso opposto riconosceva alle donne una “femminilità che avrebbe fatto bene alla Giustizia” “per le qualità che” alla donna “… derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità”, incadeva in un pregiudizio opposto.
L’On. Codacci (DC) invece richiamava “il complesso anatomo-fisiologico, per cui la donna non può giudicare”:
L’On. Bettiol (DC) ricordava che il genere femminile si qualificava per quella capacità di “commozione superficiale che avrebbe reso inadeguate le donne all’amministrazione della giustizia”.
Antonio Romano (DC) “La donna deve rimanere la regina della casa, più si allontana dalla famiglia più questa si sgretola. Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa.”
Nonostante questo sentimento prevalente e condiviso, e nonostante l’esigua presenza di madri costituenti (solo il 4 %) l’Assemblea scelse di mantenere il silenzio su questa specifica questione, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”.
Questa “mediazione” fu raggiunta quando venne bocciato l’emendamento proposto a favore dell’ingresso delle donne in magistratura, temendo fosse una posizione impopolare "si decise di non decidere", rinviando la scelta a leggi future.
Era un avversione assolutamente bipartisan dai socialisti alla DC che toccava giudici e giuristi, politici e storici!
Gli illuminati padri costituenti, coloro i quali avevano su di sé la responsabilità di lavorare sub specie aeternitatis, immolato il loro sopraffino intelletto e profonda conoscenza del diritto alla redazione di un testo che avrebbe dovuto sopravviver loro, incespicavano in pregiudizi e stereotipie, impedendo alle donne di entrare nel più alto consesso di uno dei tre poteri dello Stato.
Come è andata a finire lo sappiamo: fu solo nel ‘63 che venne sancito con legge dello Stato l’accesso delle donne in magistratura e furono 8 donne le prime ad entrarvi (Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella D’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli).
Ma non è finita qui.
Sorvolando sulle più antiche traversie che toccarono la storia delle avvocate, vicenda che ha gli albori sul finire dell’800 e che ha parimenti, una storia esemplificativa, bellissima (dal punto di vista storico) e impervia già sul finire dell’800 ( 1883-Lidia Poet), venendo ai giorni nostri, è almeno dal 1987 che ci si interroga sul peso del linguaggio di genere in particolare nel linguaggio pubblico e amministrativo.
Cio’ anche solo perché un uso improprio dello stesso crea notizie relative non coerenti e approssimative, e induce in fraintendimento.
Nel 1987 uscì “Il sessismo nella lingua italiana” un volumetto a cura di Alma Sabatini che metteva in il legame profondo tra parole e fatti, tra significante e significato, e rilevava come a distonie semantiche, lessicali corrispondessero distonie e discriminazioni a livello culturale.
L’idea quindi era quella di analizzare e cambiare anche le discriminazioni linguistiche, ma pur non riuscendo nel suo intento il lavoro pregevole di Alma Sabatini, gettava luce sul problema in particolar modo su chi del linguaggio faceva il suo strumento di lavoro.
Sappiamo che le regole della lingua anche se esistono, quando non vengono applicate, muoiono tra indicibili tormenti e per l’abbandono della desuetudine.
Prima di morire per desuetudine c’è però un momento in cui noi ci domandiamo : come chiamiamo quella professione, quale è la parola più adatta per definire qualcuno o qualcuna.
La Professoressa Fabiana Fusco ci direbbe che “ci stiamo avvicinando ai confini della lingua” dove l’utilizzo della regola, ancorché ritrovabile nella grammatica non incontra la preferenza comune.
“Tale possibile progressione non è un danno, poiché allargare gli usi della lingua significa estendere le possibilità della nostra comprensione del mondo.” F.F.
In italiano, alcune voci vanno spiegate, in particolare quelle che riguardano ruoli, incarichi e professioni, che esistono grammaticalmente anche al femminile ( avvocato/a) o possono essere identificate con il genere per i ruoli ad esempio ( il giudice/la giudice) (o ancora cambiano significato se volte dal maschile al femminile).
Tali difformità sono indicative di un sentore culturale, di come i ruoli sono caratterizzati secondo il genere e dunque anche le possibilità che ne derivano.
E’ in questo modo che la lingua dà la parola al sessismo: discrimina cioè in base ad una condizione non ad una scelta.
Il sesso di appartenenza non è frutto di merito, impegno o appunto di scelta, perché dovrebbe essere condizionante le aspettative e le possibilità concrete? Perché inoltre infermiera sì e ingegnera no? Perché s le istituzioni sono davvero neutre, allora non si dice re quando si tratta di un regina? Perché maestra sì e avvocata no? Se si guarda sul vocabolario il femminile esiste eccome.
Le parole giuste aiutano a combattere gli stereotipi e i pregiudizi che ci portiamo dietro dalla nascita ed in cui siamo sommersi: nella vulgata i lemmi che si riferiscono, tendenzialmente, ad un ruolo pubblicamente e socialmente rilevante hanno una declinazione al maschile, mentre se il ruolo è basso la declinazione è utilizzata anche al femminile.
Chiudo con un indovinello in voga negli anni 90.
Un uomo e suo figlio si trovano in montagna e affrontano la scalata di una parete rocciosa. A un certo punto della salita perdono la presa e cadono. Il figlio, più grave, viene soccorso in elicottero e trasportato in ospedale, dove lo attende il migliore chirurgo della struttura per operarlo. Appena il medico lo vede, però, esclama: «Non posso operarlo, lui è mio figlio».
Tale racconto, che i linguisti usano spesso (sempre cit. Fabiana Fusco) ha in sé tutti gli elementi che servono per rappresentare l’elemento sessista.
Non è difficile, o almeno non dovrebbe esserlo, perché ‘il migliore
chirurgo’ è una donna, cioè la madre del ragazzo.
La parola chirurga esiste.
Questo imbarazzo non è ancora superato, oramai fioriscono come peschi in primavera libri, libretti, linea guida e nella stampa si legge con sempre maggior consuetudine cariche e ruoli declinati a volta al maschile a volte al femminile, a volte con la desinenza in "essa".
“Quando sono donne, se si parla della carica sono declinate al maschile se si parla con riferimento al loro nome si parla come della Boschi, la Boldrini e la Camusso.”
Già Alma Sabatini considerava queste possibilità e metteva in guarda da un uso rispettoso della differenza che non è uno sterile politically correct, ma una seria riflessione su quella lingua che cambia il mondo, e che noi diamo per scontata fino a quando non è sotto attacco, e dunque deve arroccarsi su pre-giudizi di oggettività, di neutralità del ruolo, sul fatto che sia una questione a livello delle piu’ banali pinzillacchere, quisquiglie.
La questione linguistica, come abbiamo visto, è sempre stata molto spinosa!
Ancora oggi la declinazione ( quella grammaticalmente corretta, oggi non abbiamo neanche sfiorato l’idea di creazione di nuovi lemmi) delle professioni si situa tra due margini da un lato un’ostilità irridente, dall’altra una difesa ad oltranza indisponibile a qualsiasi compromesso.
Ci si chiede : ma chi definisce cio’ che è giusto o ciò che è sbagliato? Perché parole che suonano male debbono avere la legittimità per ruoli che nel merito dovrebbero essere neutri? Non stiamo ricamando con la seta su di un tessuto culturale di grezzo lino?
Personalmente, nel mio impegno quotidiano, nel mio scrivere negli atti declinando al meglio e, certo anche io incadendo in errore per abitudine e superficialità, cerco di dar seguito a quanto scriveva nell’87 la Sabatini ed in particolare di dar seguito al monito che Francesco Sabatini aveva utilizzato come prefazione ( ben più di una prefazione...): «accogliere solo con bordate di ironia un libro che, in
ogni caso, ci obbliga a meditare seriamente su questi fatti sarebbe la migliore prova di una inconsapevolezza totale di ciò che accade. Allo stesso modo, chi dovesse credere che modificando soltanto la lingua si risolvono anche i molti problemi di fatto che indubbiamente pesano, in sensi contrastanti, sulla vita della donna, nuocerebbe non poco alla causa che intende difendere» (F. Sabatini, “Più che una prefazione”, in: A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, cit., p. 19).
Bibliografia di riferimento "Quaeta non movere" di Carlotta Latini, "Linguaggio di Genere" di Cinzia Romano, "Contributo delle donne all’assemblea Costituente" –Laura Serantoni, Bacone
esempio difensore/difenditrice
procuratore/procuratrice
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