La famosa Sentenza dell’ 11 luglio 2018, nr. 18287 emessa dalla Cassazione Civile a Sezioni Unite, ha affermato che l’assegno di mantenimento per il coniuge divorziato ha funzione composita; tra le altre anche compensativa.
Questo significa che il coniuge economicamente più forte è tenuto a versare un contributo al mantenimento per il coniuge più debole anche per controbilanciare le risorse dedicate dall’altro durante il ménage familiare.
Ove quindi, sacrificando lo sviluppo delle proprie personali legittime aspirazioni, l’ex coniuge abbia, ad esempio occupandosi in via prevalente degli oneri familiari, contribuito ad aumentare la patrimonialità o la reddittualità dell’altro, costui ha diritto ad un assegno mensile di natura, appunto, compensativa.
Che succede, però, quando si intrattiene una frequentazione quotidiana con un nuovo o una nuova partner, convivente o meno?
Senza dubbio per espressa previsione normativa nel caso in cui l’ex coniuge economicamente più debole si risposi, costui perde ogni diritto al mantenimento.
E’ corretto, però, sostenere che alla luce anche della funzione compensativa dell’assegno, esso debba comunque essere mantenuto quando il Giudice o l’accordo tra le parti lo abbia stabilito nella indicata ottica compensativa.
Nel caso in cui, quindi, il coniuge debole è tale per aver dedicato tutte le proprie energie alle esigenze familiari del matrimonio finito, una successiva relazione stabile è del tutto irrilevante e non determina necessariamente una decadenza dell’assegno di mantenimento.
La questione, in questi termini, è oggi stata rimessa alle Sezioni Unite.
(in commento a Cass.Civ. 17/12/2020 n. 28995).
Si crede che uno degli effetti indiretti della sentenza dell’11 luglio 2018, che tanto ha mutato la giurisprudenza in tema di assegno, sia proprio questo.
La necessità di definire a che titolo venga concesso l’assegno dunque diventa fondamentale.